La definizione giuridica dei “discorsi d’odio”, generalmente noti con l’espressione inglese “hate speech”, rappresenta tutt’oggi una questione delicata. Sul piano del diritto internazionale, il problema dell’hate speech è stato affrontato da una pluralità di fonti diverse, ciascuna delle quali ha elaborato una propria definizione del fenomeno. In termini generali, tuttavia, l’hate speech si riferisce a una vasta gamma di atti espressivi, verbali e non verbali, caratterizzati dal fatto di esprimere contenuti fortemente discriminatori e degradanti ai danni di minoranze etniche, razziali, religiose, sessuali etc.

Una definizione particolarmente efficace, relativa all’hate speech su base etnica, razziale e religiosa, è stata adottata nel 1997 dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa:

L’espressione hate speech dovrà essere intesa come comprensiva di qualsiasi forma di espressione la quale dissemini, inciti, promuova o giustifichi l’odio razziale, la xenofobia, l’antisemitismo o altre forme di odio basate sull’intolleranza.

CM/Rec(97)20, cfr. https://rm.coe.int/CoERMPublicCommonSearchServices/DisplayDCTMContent?documen tId=0900001680505d5b

Tale definizione, come accennato, si concentra sulla nozione di discorso d’odio di matrice etnico-razziale o religiosa. Ciononostante, il suo campo di applicazione può essere agevolmente esteso a ricomprendere forme di odio ulteriori, quali il sessismo e/o l’omo-bi-transfobia. Lo stesso Comitato dei Ministri, nel 2010, ha esortato gli Stati membri a introdurre adeguate misure di contrasto nei confronti dei discorsi d’odio fondati sulla discriminazione per orientamento sessuale e identità di genere (CM/Rec(2010)5, cfr. https://search.coe.int/cm/Pages/result_details.aspx?ObjectID=09000016804c6add).